Immaginare l’infinito vuol dire cercare di vederlo. Come? Per esempio attraverso una sua rappresentazione fisica. Questo desiderio di raggiungere con la propria mente l’intangibile infinito, porta a due diverse soluzioni: pensare a qualcosa di etereo, impalpabile, irraggiungibile e smisurato (il cielo grigio che sfuma nel medesimo colore plumbeo del mare, la linea frastagliata del deserto che conduce verso il nulla etc.), oppure dargli forma, facendolo diventare un’opera che i nostri sensi percepiscono, attraverso un insieme di colori e di segni, che servono anche a raccontare delle storie
(Il piccolo principe di A. de Saint-Exupéry, La dance di H. Matisse, Blu III di J. Mirò etc.)

Per un artista dell’immagine dipingere l’infinito è sempre stata una sfida da cogliere. Naturalmente questo non è facile: disegnare uno spazio, che va oltre ogni umana comprensione, ha bisogno di simboli, di colori e di tecniche di rappresentazione. Per fare questo non è sufficiente avere un’idea perché, per quanto brillante possa essere l’intuizione che scaturisce dall’intelletto, alla fine bisogna realizzarla e darle forma.
A questo proposito, prendendo come esempio alcune opere di Yvan Beltrame, un artista veneziano vissuto nel Novecento, si comprende il significato d’infinito e di come si può rappresentarlo perché l’abbiamo davanti agli occhi.

La prima opera degli anni Sessanta vuole chiaramente suggerire un significato mitico e cosmico: il cielo turchino che sfuma in toni sempre più chiari verso il basso, per mettere in evidenza la densa sostanza cromatica della superficie rossa della terra con sfumature sempre più cupe verso il fondo. Su questo improbabile piano d’appoggio tondeggiante, sono seduti una donna e un cavallino dai curiosi piedi umani che osserva tranquillo, come un fedele cagnolino, la donna che ha di fianco. Sono rappresentati entrambi con il colore bianco della purezza e, inspiegabilmente privi di lineamenti, come se l’artista avesse voluto nascondere del tutto il loro stato d’animo.
Sicuramente l’atmosfera è inquietante e lascia intendere lo sviluppo d’improvvisi cambiamenti, d’altronde, sembra che entrambi siano seduti su un vulcano temporaneamente inattivo. Il desiderio di proiettare il nostro pensiero verso spazi interstellari è spesso accompagnato da un senso di allarme per tutto ciò che non si vede, e che non conosciamo: la paura dell’ignoto. Eppure, con questo strano soggetto l’artista vuole simbolicamente suggerire altre interpretazioni, che legano lo spazio infinito che circonda il nostro pianeta, con degli esseri viventi (unici sopravvissuti nel confronto titanico tra il cosmo e l’uomo) e che, apparentemente, ingentiliscono questa cupa atmosfera. L’artista con l’idea dell’ignoto che compare oltre l’orizzonte curvo della terra, e presentando il nostro pianeta come un ammasso di esplosioni e crateri senza vita, vuole farci riflettere sul destino dell’umanità sul pianeta terra. In questo paesaggio allucinante e tondeggiante l’artista fa vedere, come un’ultima disperata riflessione, una donna e un cavallino dalle trasparenze chiare e luminose: ma in una tragedia greca non c’è salvezza alcuna.

Beltrame non ha mai amato dipingere paesaggi, ma in quest’opera dipinta nel 1967 fa una scelta diversa.
Venerdì, 27 gennaio 1967, i giornali riportarono un incidente che sembrò interrompere il sogno dell’uomo di poter viaggiare nello spazio. La televisione italiana, che nel ’67 trasmetteva ancora in bianco e nero, documentò il fatto: Stati Uniti, Florida Cape Canaveral, KSC (Kennedy Space Center) alle ore 18:31, poco prima del lancio, in cima al razzo denominato Saturno, la navicella spaziale Apollo 1 prende fuoco. I tre astronauti a bordo non riuscirono ad aprire il portellone per salvarsi perché, prima di uscire dall’abitacolo, bisognava depressurizzare la capsula spaziale. L’operazione richiedeva vari minuti: non fu possibile farlo in tempo.
Probabilmente i piloti V. I. Grissom, E. H. White, R. B. Chaffee, morirono in meno di un minuto, respirando fumo e fuoco.

Yvan Beltrame rimase colpito da questo episodio che fu trasmesso anche per radio con la sequenza delle ultime parole di uno dei tre astronauti (probabilmente il comandante R. Chaffee): Fuoco! C’è del fuoco nella cabina… stiamo bruciando. Poi un grido di dolore e la trasmissione s’interruppe.

Beltrame immagina la superficie di una stella squarciata dai fiotti delle esplosioni di gas, e un pianeta che sembra fuoriuscire, come fosse una pianta, dal magma incandescente e gassoso: morte e vita, insieme.
Mille occhi escono dalla stella e mille fiori stanno sbocciando dentro il pianeta.
Che colore ha la morte tra le fiamme: bianco, giallo, rosso, arancione?
Nessuno è sopravvissuto per raccontarlo, ma un artista può immaginarlo e immortalarlo in modo molto efficace e crudo. Oppure, dare alla morte atroce che ustiona, brucia e puzza di carne e ossa che crepitano, un’altra immagine, perché per l’autore c’è sempre una speranza di vita anche nella fine più atroce, l’albero-vita del quadro ne è la dimostrazione, esce dal fuoco e svetta schiudendosi verso l’alto: un nuovo mondo, per aspera ad astra.

In questo dipinto l’infinito è uno sfondo laccato di turchese, dove strani ectoplasmi fluttuano nel vuoto. Niente stelle, pianeti, galassie… la nostra terra è sparita e con essa anche il genere umano e ogni forma di vita che abitava sul pianeta.
Lo spazio non è cupo e privo di luce così come dovrebbe essere, bensì luminosissimo quasi trasparente, peccato che sia sopravvissuta quest’unica forma di specie vivente.
Probabilmente le sue dimensioni sono gigantesche o, al contrario, minuscole come possono essere gli embrioni, le cellule, oppure invisibili come i batteri…
Se fosse così, vorrebbe dire che bisogna ricominciare daccapo: la vita riparte e se questa è una cellula ecco che si sta già sdoppiando.
Immagini:
Joan Miro, Blu III, 1961
Henri Matisse, La dance
Yvan Beltrame, Tragedia greca, donna e cavallino seduti
Yvan Beltrame, Un mondo nuovo(1967),
Gli astronauti dell’Apollo1
Yvan Beltrame, Simmetrie cosmiche
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